lunedì 12 maggio 2025

DALLA PERGAMENA AL SUONO: L'EVOLUZIONE DEL 'VOLUME'

 

Nel linguaggio quotidiano usiamo molte parole senza fermarci a riflettere sul loro percorso storico e sulle diverse sfumature di significato che hanno acquisito nel tempo. Alcuni termini, nati in contesti molto specifici, si sono evoluti fino a diventare indispensabili in numerosi ambiti, arricchendo, così, il nostro modo di comunicare. "Volume" è uno di questi: un vocabolo che, nel corso dei secoli, ha ampliato i suoi confini semantici, passando dalla pergamena degli scribi antichi alla fisica dello spazio, dalla potenza del suono alla misura di dati e affari.

L’origine del lessema in oggetto affonda le radici nel latino volumen, che indicava un rotolo di pergamena o papiro destinato alla lettura. E questo dal verbo volvere, che significa "girare, avvolgere", evocando il gesto di arrotolare o srotolare un testo scritto nell’antichità.

Da questa prima accezione legata alla forma fisica di un libro, il significato di "volume" si è adattato ai cambiamenti culturali e tecnologici, con nuove sfumature. Ancora oggi la parola viene usata, infatti, per indicare un tomo, un libro, o una sua parte.

L’evoluzione semantica ha poi portato "volume" a includere l’idea di spazialità e misura. Nella geometria e nella fisica il vocabolo designa la quantità di spazio occupata da un corpo tridimensionale, espressa in metri cubi o altre unità di misura. Questo uso conserva, indirettamente, il legame concettuale con la sua origine, poiché si riferisce a qualcosa di contenuto e definito nello spazio.

Un altro significato fa riferimento al suono: il "volume" indica l’intensità di un suono o di un segnale acustico. Questa accezione è nata con lo sviluppo delle tecnologie di registrazione e riproduzione sonora, dove l’ampiezza del suono ha trovato un termine adeguato proprio nella parola "volume". Oggi lo utilizziamo quotidianamente per regolare l’audio di dispositivi come radio, televisori e strumenti digitali.

Lo stesso termine, infine, viene impiegato in senso figurato per esprimere quantità generiche, come il "volume di affari" in economia o il "volume di dati" nel contesto informatico. Qui l’accezione è legata alla dimensione, alla quantità e alla capacità di contenere, conservando un filo concettuale con le sue origini.

A titolo conclusivo. L’evoluzione del sintagma "volume" è un chiaro esempio di come un termine possa trasformarsi e adattarsi alle esigenze culturali, tecniche e linguistiche. Partendo da un semplice rotolo di pergamena, oggi "volume" è parte del nostro vocabolario in molti ambiti, sempre con l’idea di qualcosa che si sviluppa nello spazio, nel suono o nella quantità.


sabato 10 maggio 2025

Sgroi – 196 - PAPA LEONE XIV: ITALOFONO TRA ANGLO-AMERICANO E SPAGNOLO

 


di Salvatore Claudio Sgroi


1. Un evento mondiale

Un evento decisamente mondiale l’elezione a papa del cardinale Robert Francis Prevost, da tutti chiamato Bob, col nome di Leone XIV, agostiniano, nativo anglo-americano di Chicago, con cittadinanza anche peruviana, poliglotta (spagnolo, italiano, francese, portoghese, tedesco), con nonni europei (francesi e spagnoli).


2. Neo-papa italofono anglo-americano

Il Neo-papa parlando un colto e fluente italiano rivela la sua origine anglo-americana dall’intonazione come anche dalla pronuncia, come rilevato da un attento amico e collega, nel pronunciare la “r” non vibrante (/sempre/, /braccia aperte/), che gli richiamava la pronuncia del nipotino tenessiano.


3. Gli “errori” di papa Leone XIV italofono

Nell’ottica di Eugenio Coseriu solo un parlante straniero può commettere “errori” parlando una lingua non nativa. E naturalmente tali usi sono estranei nel caso specifico agli italo-nativofoni (cfr. più avanti il caso di benedivo).


3.1. Errori per interferenza con l’anglo-americano

All’anglo-americano sono da riportare usi errati quali “cercare Ø infinito” anziché “cercare di + inf.” in “cercando sempre lavorare come uomini e donne fedeli a Cristo” nel discorso da piazza San Pietro 9 maggio, cfr. ingl. I tried to open the box ‘cercai di aprire la scatola’ (Ragazzini 2023).

E ancora il ridondante “conoscendo si sé stesso” (intervista-RAI Vaticano La Volta Buona 9.V.2025, a Stefano Ziantoni), richiama l’ingl. to know oneself (Ragazzini 2023).

Il passaggio da “raggiungere v. tr.” a “(raggiungere) a intr.” non è spiegabile nel discorso del 9 maggio se non con un sottinteso “giungere a”, mediato dall’ingl. to reach con duplice traducente it. a) ‘raggiungere’ e b) ‘giungere’ (cfr. Ragazzini 2023):

Anch’io vorrei che questo saluto di pace entrasse nel vostro cuore, raggiungesse [reach] le vostre famiglie, [giungesse = reach] a tutte le persone, ovunque siano, a tutti i popoli, a tutta la terra”.

Anche la cancellazione dell’art. “i” nel sintagma “tutti [i] confratelli cardinali” in “voglio ringraziare anche tutti confratelli cardinali che hanno scelto me per essere successore di Pietro” (nello stesso discorso) rimanda all’ingl., p.e. “all Ø men are equal” ‘tutti gli uomini sono uguali’ (cfr. Ragazzini 2023).


3.2. Errori per interferenza con lo spagnolo

Trattandosi di un religioso che parla spagnolo, essendo stato per oltre un quindicennio missionario in Perù, a Chiclayo (1985-1999), è comprensibile che alcuni “errori” morfologici e morfo-sintattici siano dovuti all’interferenza con lo spagnolo. Continuità anche sul versante linguistico con papa Francesco?

Allo spagnolo è da riportare così il sintagma “con el incontro” anziché ‘con l’incontro’ in “Aiutateci anche voi, poi gli uni gli altri a costruire ponti, con il dialogo, con el incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace”, nel citato discorso, forma inevitabilmente corretta nelle citazioni giornalistiche, come “Il fatto quotidiano” 9 maggio, p. 2.

Il costrutto “pensare in” per ‘pensare a’ nell’enunciato “pensare molto in quello che [mio padre] mi diceva”, nella citata intervista, ricalca lo sp. pensar en, es. “no pensar en ciertas cosas” ‘non pensare certe cose’ (Grande Diz. di Sp. di Arqués-Padoan 2012).

Analogamente, nella stessa intervista, nell’enunciato “dubbi che potevano entrare” i.e. ‘venire’ sembra un’interferenza dello sp. caber ‘entrare’, es. no cabe duda ‘non c’è alcun dubbio’ (cfr. Arqués-Padoan 2012).

L’oggetto preposizionale post-verbale, tipico dello spagnolo (cfr. el hombre bendijo al joven, Arqués-Padoan 2012) appare una volta, nel citato discorso, ma non più ripetuto nello stesso costrutto:

Ancora conserviamo nei nostri orecchi quella voce debole ma sempre coraggiosa di Papa Francesco che benediva a Roma! Il Papa che benediva Roma dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero, quella mattina del giorno di Pasqua”.

L’oggetto preposizionale è invece normalizzato senza la preposizione ne “Il fatto quotidiano” 9 maggio p. 2.

Così la base dell’avv. incondizional-mente anziché “incondizionata-mente” sempre nello stesso discorso “Dio ci ama tutti in condizional-mente”, richiama lo sp. incondicional-mente (Arqués-Padoan 2012) con identico suffisso, pur con l’“appui” dell’ingl. uncondional-ly (Ragazzini 2023). Una forma anche questa normalizzata ne “Il fatto quotidiano” p. 2.


3.3. Errori “idiolettali”

Un errore, per così dire idiolettale, è la presenza, nel citato discorso,dopo l’incertezza fra che e il quale, del relativo la quale col valore di ‘alla quale, a cui’:

Possiamo tutti camminare insieme verso quella patria (che >il quale>) la quale [‘alla quale, a cui’] Dio ci ha preparato”.


3.4. Accento in latino

Leggendo un testo latino, papa Leone XIV una volta pronuncia piana l’espressione ˏonnipòtens, una volta invece sdrucciola onnìpŏtens, secondo l’accentazione latina e quella dell’ingl /ɒm’nɪpətənt/.


3.5. Uno pseudo-errore: benediva

Nel corso delle più volte ricordato discorso, papa Leone XIV ha detto:

Papa Francesco che benediva a Roma; il Papa che benediva Roma, dava la sua benedizione al mondo, al mondo intero”.

In un post Tiziana Maiolo ha scritto al riguardo: “Con tutto il rispetto per il nuovo papa, qualcuno di italiano [!] non poteva dirgli che si dice ‘benediceva’ e non ‘benediva’?”.

<https://x.com/tizianamaiolo/status/1920536500422250714>

Relativamente a tale scelta morfologica lo stesso amico e collega, di cui sopra, ha così commentato: “Ufficialmente è un errore”.

Tale giudizio è invero indizio di un atteggiamento, a dir poco, neopuristico. Mi permetto di osservare che non si tratta affatto di un errore, né nel senso di Coseriu, in quanto uso diffuso in italiano né dal punto di vista “laico”, perché uso non specifico dell’italiano popolare, ma diffuso presso i parlanti colti, da almeno Ariosto a Pascoli e oltre, come dimostrato già nella mia Per una grammatica ‘laica’. Esercizi di analisi linguistica dalla parte del parlante (Utet 2010, pp. 59-60 e n. 2).

La [Regola-2] alla base della produzione della forma morfologica bened-iva si spiega – va ricordato -- con la percezione del parlante di bened-ire come voce semplice da cui bened-iva (cfr. accud-ire), rispetto alla [Regola-1] etimologica secondo cui bene-dire è invece voce composta “bene+dire > bene+diceva



Sommario

1. Un evento mondiale

2. Neo-papa italofono anglo-americano 

3. Gli “errori” di papa Leone XIV italofono

3.1. Errori per interferenza con l’anglo-americano

3.2. Errori per interferenza con lo spagnolo

3.3. Errori “idiolettali”

3.4. Accento in latino

3.5. Uno pseudo-errore: benediva



















(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)




Parole senza confini: il fascino dell’italiano

 


La nostra lingua, cantabile per eccellenza, è un universo ricco di sfumature, musicalità e precisione lessicale. Ci sono parole che racchiudono concetti complessi con poche lettere, e altre che esprimono sentimenti e situazioni in modo così vivido da risultare quasi intraducibili in altre lingue.

Prendiamo magari, per esempio. Questo termine versatile può significare speranza (Magari domani farà bello!), possibilità (Potremmo andare al cinema, magari dopo cena.), o addirittura concessione (Se vuoi puoi uscire, magari non fare troppo tardi.). In inglese, spagnolo o francese non esiste un equivalente perfetto, e il contesto “decide” di volta in volta la sfumatura esatta.

Un'altra gemma linguistica è pantofolaio, vocabolo che definisce in modo immediato e quasi ironico chi ama rimanere a casa, senza slanci mondani o sociali. Un inglese potrebbe dire homebody, ma non avrebbe lo stesso suono evocativo di chi è attaccato alle proprie pantofole.

Poi c’è struggimento, che incapsula un dolore intenso ma allo stesso tempo dolce, una nostalgia carica di emozioni profonde. Non è semplicemente sadness o longing, perché include quella nota di tormento romantico che rende il vocabolo unico nella sua espressività.

Ma la nostra amata lingua italiana non si ferma qui: ha la capacità di catturare sfumature di emozioni, comportamenti e situazioni che spesso risultano difficili da rendere in altre lingue. Alcune parole, per esempio, sembrano contenere interi concetti, tanto da rendere impossibile tradurle con un semplice equivalente.

Pensiamo, in proposito, al verbo commuovere. In italiano ci si può commuovere per un film, per un racconto, per un gesto gentile o per un ricordo che riaffiora con dolcezza. Significa, quindi, essere toccati emotivamente, ma senza la pesantezza della tristezza pura. L'inglese direbbe move emotionally, ma manca di quella sfumatura delicata che rende "commuovere" così speciale.

Un altro termine straordinario, ad avviso di chi scrive, è apericena, il perfetto equilibrio tra l’aperitivo e la cena, un momento conviviale che non designa un pasto completo. Questa usanza, tipicamente italica, racconta di socialità, leggerezza e piacere del cibo, e difficilmente altre lingue riescono a racchiuderlo in un solo vocabolo.

E che dire di spiluccare? Questo verbo descrive il gesto di mangiare un po’ qua e un po’ là, senza un vero pasto. Non è snacking, perché implica una componente quasi distratta, come quando si assaggiano piccoli bocconi senza impegno.

Un’altra parola intraducibile in altre lingue è sgamare, verbo tipico del linguaggio giovanile e informale. Sgamare qualcuno significa smascherare un trucco o una bugia, coglierlo sul fatto. In altre lingue servirebbero più parole per esprimere la medesima idea.

Queste parole dimostrano, insomma, quanto l’italiano sia una lingua che non solo comunica, ma dipinge veri e propri quadri emotivi e sociali con poche lettere. È un tesoro lessicale da preservare e da apprezzare ogni giorno.

***

Avere il caffo

L'espressione che avete appena letto è un modo di dire poco conosciuto, diffuso, sembra, nel Sud Italia. Viene adoperata per indicare qualcosa di dispari, irregolare o privo del corrispettivo, come un calzino spaiato o un oggetto che manca del suo gemello. In senso figurato si può riferire anche alle persone, descrivendo chi, per un motivo o per un altro, si sente isolato o fuori posto.

L'origine del termine "caffo" non è del tutto chiara, ma alcuni studiosi lo collegano alla parola araba qahwa, da cui il nostro "caffè". In alcune accezioni antiche qahwa poteva riferirsi anche a qualcosa di scuro, opaco o irregolare, suggerendo un’idea di squilibrio. Altri lo mettono in relazione con la regione etiope di Kaffa, luogo d’origine del caffè, il che rafforzerebbe la connessione con il concetto di unicità e assenza di simmetria.

Ancora oggi, come accennato, in alcune zone dell’Italia meridionale questa espressione viene usata per descrivere oggetti spaiati o numeri dispari, ma anche per riferirsi a situazioni di scompenso o mancanza di armonia. È un frammento linguistico affascinante, testimone delle infinite sfumature della nostra bella lingua.

venerdì 9 maggio 2025

'Zibillare' e il segreto delle parole perdute

 

Da quando la Lingua Madre aveva inscritto il suo nome nel Grande Dizionario zibillare non aveva più smesso di vibrare tra le frasi dei poeti e le pagine degli scrittori. Si sentiva finalmente parte del lessico, una parola viva e in movimento. Ma qualcosa, nel profondo del Regno delle Parole, stava cambiando.

I discorsi erano diventati più brevi, le frasi più rigide, e alcune parole cominciavano a scomparire. Le metafore venivano accantonate, i sinonimi ignorati, e intere espressioni cadevano nell'oblio. Zibillare sentiva nell'aria un silenzio strano, come se il linguaggio stesso avesse smesso di respirare.

«Dove vanno le parole dimenticate?» si chiedeva, inquieto.

Fu allora che decise di andare alla ricerca del leggendario archivio delle parole perdute, un luogo misterioso dove si diceva fossero custoditi i lessemi che il tempo aveva cancellato.

Dopo un lunghissimo viaggio attraverso le biblioteche in rovina e le pergamene impolverate, giunse finalmente alle porte dell’archivio. Davanti a lui, una voce flebile sussurrò:

«Chi osa disturbare il sonno delle parole perdute?»

Era la Custode della Memoria, un'antica espressione mai più usata da secoli, che vegliava sul destino delle parole abbandonate.

«Sono Zibillare,» rispose il verbo, con fierezza. «Sono venuto a riportare la luce nel linguaggio!»

La custode lo osservò con occhi profondi e poi lo condusse all’interno dell’archivio. Zibillare rimase senza fiato: migliaia di parole dimenticate giacevano lì, in attesa di essere pronunciate ancora:

Aperiènte (che apre, stimola), Pòculo (coppa, bicchiere), Acceffare (afferrare con avidità), Rimpedulato (stanco, affaticato), Terriculóso (pauroso, timoroso)… Erano tutte lì, sospese nel tempo, private del loro significato.

«Il linguaggio cambia,» spiegò la custode. «Ma se nessuno usa queste parole, esse svaniscono.»

Zibillare comprese allora il suo vero destino: non bastava solo esistere, bisognava diffondere il movimento della creatività linguistica.

Decise, quindi, di zibillare tra le pagine dei libri, nei sogni dei poeti e nei pensieri di chi amava le parole. Si sarebbe mosso con energia, trascinando con sé ogni termine dimenticato, riportando in vita ciò che rischiava di perdersi per sempre.

E da quel giorno, in ogni angolo del Regno delle Parole, si udì un nuovo mormorio… parole che tornavano a vivere, zibillando tra le menti di chi non aveva paura di dare voce alla bellezza del linguaggio, riportando alla luce termini dimenticati e, nel contempo, crearne di nuovi alla bisogna.




giovedì 8 maggio 2025

"Zibillare", il suono che divenne parola

 

Nel cuore del vasto Regno delle Parole, dove i discorsi scorrevano come fiumi e i libri si innalzavano come montagne, viveva un piccolo verbo smarrito: zibillare.

Nessuno sapeva esattamente cosa significasse, e per questo nessuno lo usava. Non era nei dizionari, non compariva nei libri, e persino i poeti, nel dubbio, lo ignoravano. Era come un suono sospeso nel vento, impalpabile e incompiuto, in attesa di trovare il suo posto nel mondo.

Ma Zibillare non si arrendeva. Continuava a rimbalzare tra le frasi, a insinuarsi nei discorsi, a posarsi sulle labbra di qualche scrittore indeciso. Sapeva che, se solo avesse trovato il suo significato, sarebbe potuto diventare una parola importante. Ma il tempo passava, e il rischio di essere dimenticato aumentava.

Un giorno, deciso a cambiare il suo destino, si avventurò nei maestosi saloni della Accademia dei Lessicografi, il luogo sacro dove le parole venivano studiate, analizzate e certificate. Qui incontrò la venerabile Lingua Madre, la custode del linguaggio, colei che da secoli vegliava affinché nessuna parola perdesse il suo valore.

«Chi sei tu?» chiese la Lingua Madre, con voce solenne.

«Sono Zibillare,» rispose con entusiasmo, il verbo. «Non ho ancora un significato, ma sento che potrei essere utile!»

La Lingua Madre lo “scrutò” con attenzione, poi convocò i più grandi linguisti e studiosi del Regno. Per giorni e notti dibatterono sul misterioso suono, fino a quando un vecchio etimologo sollevò la pergamena del tempo e dichiarò:

«Zibillare potrebbe derivare da un antico dialetto dimenticato, forse una fusione tra il latino sibilare (fischiare, sussurrare) e l’espressione arcaica "zibì", usata un tempo nei villaggi per descrivere un movimento agile e imprevedibile! Potrebbe significare, dunque, l'atto di muoversi con energia, diffondendo idee e creatività in maniera spontanea!»

Gli accademici annuirono, affascinati. «Un verbo che incarna la libertà dell’invenzione!» esclamò un poeta. «Si può zibillare tra le idee, tra le emozioni, tra le parole mai dette!»

La Lingua Madre, contenta, sorrise. Con gesto solenne, prese una penna d’oro e iscrisse il verbo Zibillare nel Grande Dizionario. Il piccolo verbo non era più solo, e da quel giorno ogni parola dimenticata del Regno comprese che, con un po’ di coraggio e un pizzico di magia, anche il termine più insolito poteva trovare il suo posto tra le parole immortali.

Da allora, poeti e pensatori continuarono a zibillare nei loro mondi di creatività, e la lingua, sempre viva e in evoluzione, accoglieva con gioia ogni nuova parola che trovava il coraggio di farsi sentire.

mercoledì 7 maggio 2025

La grande fuga delle parole: storia dei verbi che non vogliono parlare chiaro

 

Nel Regno dei Paraculandi, tra i vicoli tortuosi della grammatica italiana, c’era una locanda famosa, L’Osteria del Giro di Parole, dove i verbi più abili si riunivano per affinare le loro strategie. Ogni sera, Evaporare, l'oste, serviva frasi che si dissolvevano senza lasciare traccia, mentre Decantare, il poeta, recitava versi che esaltavano la bellezza del non detto.

In un angolo, Ambiguare, il filosofo del regno, rifletteva sulle infinite possibilità di una frase sospesa, senza conferme né smentite. E mentre Rinviare prometteva di rispondere "in un secondo momento", Divagare prendeva la parola e iniziava un discorso che nessuno sapeva dove sarebbe finito.

Ma in quella notte particolare, nel silenzio che avvolgeva il regno, il giovane verbo Dichiarare fece il suo ingresso nell’osteria. Si schiarì la voce e, senza paura, esclamò:

"Basta! Il popolo merita parole chiare!"

La locanda tremò. I bicchieri tintinnarono. Per la prima volta, nel Regno dei Paraculandi, qualcuno aveva avuto il coraggio di dire le cose come stavano.

Fu allora che Ambiguare, sorseggiando lentamente il suo vino, si sporse in avanti e disse:

Attenzione, giovane amico, perché le parole sono creature astute. Esiste una razza particolare, i verbi paraculare, che vivono nell'ombra del linguaggio e sfuggono alle responsabilità comunicative con straordinaria eleganza.

Dichiarare si fece pensieroso.

Verbi paraculare? chiese.

Sì, proseguì Ambiguare, prendono il loro nome dal verbo paraculare, nato dall’arte di schivare, proteggere, evitare. 'para-', come difesa. 'culo', come furbizia. Da tempo immemorabile questi verbi popolano i discorsi di politici, burocrati e chiunque voglia dire molto senza dire nulla.

Dichiarare scosse il capo: questo deve finire. Le parole devono servire a comunicare, non a confondere!

Fu in quel momento che dalla locanda si levò un brusio inquieto. Rinviare si defilò sussurrando ne riparleremo più tardi, mentre Divagare iniziò un discorso sulla bellezza della retorica senza mai giungere a un punto. Evaporare fece svanire il proprio bicchiere nel nulla, e Decantare iniziò a tessere le lodi dell’ambiguità poetica.

Ma qualcosa era cambiato.

Nel regno lontano delle parole sfuggenti, i verbi iniziarono a guardarsi attorno con sospetto, o almeno, a scegliere con più cura quando parlare chiaro e quando svicolare via.

E così, da quel giorno, alcuni studiosi della lingua accolsero il lessema paraculare, non attestato, però, nei testi di grammatica (si trova in alcune pubblicazioni) e adoperato da chi cerca di fare chiarezza in un mondo di parole sfuggenti.





martedì 6 maggio 2025

L’italiano, una lingua in viaggio: storia, evoluzione e futuro

 

La lingua italiana è molto più di un semplice mezzo di comunicazione: è un ricco patrimonio culturale, una melodia che attraversa i secoli, una tela su cui si sono intrecciati storia, poesia e innovazione. Dal latino volgare ai neologismi (digitali) il lessico italiano ha attraversato un percorso complesso, fatto di cambiamenti e contaminazioni, ma sempre fedele alla sua natura espressiva.

La lingua di Dante e di Manzoni nasce dal latino volgare, parlato dal popolo romano, in contrapposizione al latino classico delle “élite”. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, il latino si frammentò in dialetti regionali, dando origine alle lingue neolatine. Nel Medioevo queste forme linguistiche continuarono a evolversi finché il fiorentino trecentesco, grazie a Dante, Petrarca e Boccaccio, divenne la base della lingua italiana. Dante, con la sua Commedia, dimostrò che il volgare poteva essere adoperato per la letteratura alta, “imprimendogli” dignità e autorevolezza.

Nonostante il prestigio della “lingua fiorentina” l’Italia rimase a lungo divisa linguisticamente: fino al 1861, anno dell’Unità d’Italia, la maggior parte degli italiani parlava dialetti regionali, spesso molto diversi tra loro. L’italiano era usato perlopiù dagli intellettuali e dagli scrittori, mentre il popolo continuava a comunicare attraverso i dialetti. Fu solo con la scuola obbligatoria, la diffusione dei mezzi di comunicazione e il “boom” economico del dopoguerra che l’italiano divenne realmente la lingua comune. Un grande contributo, in questo senso, lo diede la RAI con programmi educativi come quello del maestro Alberto Manzi, Non è mai troppo tardi, che insegnò l’italiano (scritto, soprattutto) a migliaia di nostri connazionali.

Oggi, la nostra lingua continua a evolversi influenzata da diversi fattori. L’uso dei dialetti, seppur ridotto, continua a caratterizzare la comunicazione in molte regioni, arricchendo il lessico con espressioni uniche. Dalle lingue straniere, soprattutto dall’inglese e dal francese, sono stati importati numerosi prestiti, mentre il linguaggio digitale ha portato nuove abbreviazioni e modi di dire. Anche l’italiano giovanile è in continua trasformazione, con nuovi termini e modi di esprimersi che influenzano il lessico comune e contribuiscono alla naturale evoluzione della lingua.

Il nostro idioma, oggi, si trova a un bivio. Da un lato, c’è il desiderio di preservare la bellezza della lingua e la sua ricchezza espressiva; dall’altro, c’è la necessità di adattarsi alle nuove forme di comunicazione globalizzate. L’Accademia della Crusca e altre istituzioni linguistiche monitorano e guidano questa evoluzione, cercando di mantenere un equilibrio tra conservazione e innovazione. La sfida sarà quella di accogliere il cambiamento senza perdere l’identità, garantendo che l’italiano continui a essere una lingua capace di raccontare la storia e la cultura di chi la parla.

La lingua italiana, dunque, con il suo suono melodico e le sue infinite sfumature, è destinata a evolversi ancora. Ma, proprio come è successo con Dante e Manzoni, sarà sempre la voce di un popolo, la sintesi perfetta tra passato e futuro, tra memoria e invenzione.


(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)

lunedì 5 maggio 2025

Le lenzuola e i lenzuoli

 

C’era una volta, in un regno lontano avvolto dal soffice abbraccio delle notti stellate, un piccolo villaggio dove i tessitori tramandavano un sapere antico: l’arte di creare le lenzuola (o i lenzuoli).

Si racconta che le lenzuola, femminile plurale, siano nate dal genio di Lina, una giovane filatrice che voleva tessere veli leggeri e avvolgenti per regalare un sonno sereno a chiunque si coricasse. Questo termine, ancora oggi, è il più comune nel linguaggio quotidiano quando si parla della biancheria da letto. Le persone cambiano le lenzuola, acquistano lenzuola di cotone, di raso o di lino, e nei negozi si trovano confezioni che riportano la scritta "set di lenzuola". È il termine predominante nella vita di tutti i giorni, quando si pensa al letto e al riposo.

I lenzuoli, maschile plurale, invece, erano usati dai più anziani del villaggio per descrivere i grandi teli di tessuto grezzo, larghi e pesanti, utilizzati non solo per il letto ma anche per altri scopi. Oggi, il termine "lenzuoli" è meno frequente e si trova per lo più in contesti letterari e descrittivi. Può evocare immagini più tradizionali o solenni, come lenzuoli di lino stesi al sole oppure lenzuoli pesanti avvolti attorno ai corpi. È un termine più ricercato, usato per creare atmosfera e per riferirsi ai teli da letto in un contesto più evocativo.

Nel sontuoso palazzo del re i lenzuoli di lino venivano stesi con cura, rimboccati con attenzione, pronti ad accogliere riposi regali. Nel villaggio, invece, le lenzuola di cotone erano profumate di lavanda e bianche come le nuvole, pronte ad avvolgere i sogni di chi vi si rifugiava. Così, ancora oggi, il femminile plurale lenzuola è il più diffuso nel linguaggio quotidiano, mentre il maschile lenzuoli resiste in contesti più raffinati, letterari e poetici.

E non mancavano i modi di dire riferiti a queste preziose stoffe:

Tirare le lenzuola dalla propria parte – per chi cerca di ottenere un vantaggio.

Essere tra le lenzuola – sinonimo di riposo e quiete.

Fare le lenzuola di seta – augurio di una notte serena. 

Alzarsi con le lenzuola storte – per chi si sveglia di cattivo umore. 

Svelare ciò che si nasconde sotto le lenzuola – per rivelare un segreto.  

Saltare fuori dai lenzuoli – per chi si alza di colpo, magari con un’idea improvvisa.

Si diceva spesso nel villaggio: "Tra i lenzuoli della nobiltà si celano segreti, tra le lenzuola dei poveri si celano sogni". E così, tra un telo e l’altro, la notte accoglieva chiunque senza distinzione.

Le lenzuola e i lenzuoli, due nomi, dunque, per un unico abbraccio del sonno. E vissero tutti… avvolti nel lino e felici, protetti dal dio Morfeo!

---

Nell'uso "moderno": Lenzuola è il plurale più comune e si adopera soprattutto per indicare l'insieme dei teli che compongono la biancheria da letto (es. cambiare le lenzuola).

Lenzuoli, invece, è tecnicamente “più corretto” ma viene adoperato solo per indicare i singoli pezzi presi separatamente, come in contesti specifici (es. i lenzuoli stesi ad asciugare).











(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


domenica 4 maggio 2025

Quando scrivere significa fissare il tempo: l’origine di 'appuntamento'

 

 Nel grande mare della lingua italiana, alcune parole compiono veri e propri viaggi semantici, trasformandosi e arricchendosi di significati nuovi. È il caso di "appuntare" e "appuntamento". A prima vista, sembrano semplici termini di uso comune, ma nascondono una storia interessante e una curiosa evoluzione linguistica.

A
ppuntare è un verbo denominale proveniente dal latino ‘punctare’ (dal sostantivo 'punctum') che significa "marcare, segnare con un punto". L’idea di lasciare un segno, di incidere un'informazione, è centrale in questa parola. Quando è “nato” appuntare aveva anche un significato più concreto: designava il gesto di affilare qualche cosa, di renderla appuntita. Da qui derivano parole come ‘punta’, ‘appuntito’, che conservano il legame con questa radice antica.

M
a con il trascorrere del tempo il verbo si è evoluto e ha assunto il senso di “annotare, di fissare un'informazione su un supporto scritto”. È un'azione prettamente istintiva: ci capita di appuntare velocemente un pensiero, un numero di telefono, un’idea fulminea prima che sfugga. E da questo gesto naturale nasce il concetto di ‘appuntamento’, ovvero un momento segnato, definito, fissato nella nostra agenda mentale o cartacea.

I
mmaginiamo, per esempio, un mercante del Medioevo che annota nel suo registro il giorno in cui incontrerà un cliente, o un giovane innamorato che segna nel proprio diario la data di un incontro speciale. Questo gesto pratico ha dato origine a una parola che oggi indica molto più di un semplice incontro.

I
l termine appuntamento, dunque, ha trovato applicazione in diversi ambiti, con sfumature affascinanti: 
Personale: un appuntamento romantico, una cena con amici, un caffè tra colleghi. Qui è sinonimo di legame, di relazione.
Professionale: un colloquio di lavoro, una riunione, una visita medica. Un incontro che scandisce il ritmo della nostra vita sociale e professionale.
Culturale e sociale: spettacoli teatrali, concerti, festival, eventi pubblici. In questo caso, l’appuntamento diventa un’occasione imperdibile.
Sportivo: una gara, una competizione ricorrente. Qui il termine enfatizza la regolarità e l’importanza dell’evento.
Metaforico: "Aveva un appuntamento con il destino." Questa espressione affascinante suggerisce un incontro inevitabile con un evento significativo.
Concettuale: "L’appuntamento con la storia," usato per indicare momenti cruciali della società.

S
ebbene oggi si possa dire di avere un appuntamento senza necessariamente... appuntarlo, il legame con la scrittura è ancora forte. La tecnologia ha trasformato il modo in cui organizziamo gli incontri, ma il concetto di fissare un momento, di renderlo tangibile, è sempre presente.

I
nteressante anche il fatto che, nel linguaggio burocratico, "appuntare" è spesso sostituito da termini più formali come annotare o registrare. Eppure, nel linguaggio quotidiano, conserva la sua freschezza e immediatezza. È una parola che richiama la semplicità del gesto e l’importanza del ricordo.

L
a lingua, insomma, è un organismo vivo, che si trasforma e si adatta ai tempi. Le parole che usiamo ogni giorno hanno una storia, una profondità che spesso ignoriamo. 'Appuntamento' non è solo un momento da fissare in agenda, ma il riflesso di un’abitudine antica, di un gesto che attraversa i secoli e arriva fino a noi.

F
ermiamoci, allora, a riflettere: quante volte diciamo “Ho un appuntamento” senza pensare che, in fondo, stiamo evocando un gesto millenario? La lingua è memoria, è evoluzione, è identità. E noi, che la parliamo ogni giorno, siamo i custodi di questo straordinario viaggio.


***

Si presti attenzione a “il saio” e a “la saia” perché questi due sostantivi spesso si confondono. Il maschile, con il plurale "sai", indica, genericamente, un abito. Si usa, per lo piú, con riferimento alla tonaca monacale. Il femminile, invece, con il plurale "saie", definisce un sottile panno di lana.




(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)


venerdì 2 maggio 2025

Crasi e concrezione: quando le parole si fondono e si trasformano

 

La lingua è un organismo vivo, in costante trasformazione. Suoni e significati si intrecciano, dando origine a nuove forme espressive. Tra i vari fenomeni linguistici che plasmano le parole, la crasi e la concrezione (nota anche come agglutinazione) giocano un ruolo fondamentale, pur operando su piani diversi.

La crasi è un fenomeno fonetico in cui due vocali appartenenti a parole diverse si fondono in un’unica forma, creando un termine più fluido e immediato. Questo processo, diffuso nelle lingue classiche come il greco antico, si riscontra anche in italiano, seppur con minor frequenza. Un esempio chiaro è filindiano (da filoindiano) o filarabo (da filoarabo), dove la vocale finale della prima parola si fonde con quella iniziale della seconda, eliminando il suono intermedio.

Il termine deriva dal greco krásis, che significa "mescolanza" o "fusione", espressione perfetta della semplificazione fonetica che questo processo comporta.

La concrezione (o agglutinazione), invece, opera su un piano morfologico e semantico. Due parole si uniscono in un’unica unità lessicale, perdendo i confini originari e generando un nuovo vocabolo con un significato autonomo. Un caso emblematico è buonanotte, termine nato dall’unione di buona e notte, trasformato in un saluto a sé stante. Un altro esempio è perlopiù, derivante dalla fusione di per e lo più, ormai percepito come un unico avverbio che indica una tendenza generale. Anche dopodiché, derivato dall’unione di dopo e di che, illustra il processo di fusione e semplificazione. Il termine concrezione, invece, ha origini latine: ‘concretio’ (da concrescĕre ‘coagularsi’ , che significa "aggregazione" o "coagulazione", e mette in luce la fusione strutturale tra le parole.

Per concludere queste noterelle. La crasi interviene esclusivamente sul piano fonetico, la concrezione, invece, dà vita a nuove unità lessicali con significati propri, contribuendo all’evoluzione del lessico. La crasi si riscontra particolarmente nelle formazioni linguistiche di derivazione classica o nei composti che subiscono contrazioni naturali per fluidità del parlato. La concrezione, invece, è un fenomeno più comune e vitale nella creazione di parole di uso quotidiano, spesso trasmesse in forma univerbata dall’uso colloquiale alla lingua scritta.

Entrambi i fenomeni mostrano la dinamicità della lingua e la sua capacità di adattarsi alle esigenze comunicative. La crasi tende a semplificare l’articolazione di termini complessi, mentre la concrezione favorisce la nascita di nuove parole ben integrate nel sistema lessicale.

 ***

La lingua “biforcuta” della stampa

Morta la persona più anziana del mondo, suor Inah aveva 116 anni. Ora lo "scettro" alla bisnonna inglese Ethel Caterham

---------------

Sì, ci ripetiamo e ci ripeteremo fino a quando gli operatori dell’informazione…

Correttamente: più anziana al mondo.



(Le immagini sono riprese dalla Rete, di dominio pubblico, quindi. Se víolano i diritti d'autore scrivetemi; saranno prontamente rimosse: fauras@iol.it)